Monday, February 15, 2010

Hagoromo

Banana Yoshimoto, Hagoromo (L'abito di Piume), 2003.

I sassi, il colore del cielo, le luci delle case, le auto e le altre cose in lontananza, il vigore delle attività umane, il colore dell'erba, le piccole creature viventi, le nuvole enormi che si rincorrono all'orizzonte, quel suono flebile che risuona nelle orecchie... forse tutti quelli che come me in qualsiasi angolo della Terra riescono a trarre dall'ambiente quel tipo di conforto, speciale e ordinario insieme, si rendono conto di vivere questo mondo.

Quell'inverno ero davvero messa male, tanto da decidere di tornare per qualche tempo al mio paese (...). Non riuscivo ancora a credere fosse finita la relazione che avevo avuto con un uomo sposato da quando avevo diciotto anni. Per quanto tempo passasse, non mi rassegnavo all'idea che ci fossimo lasciati davvero. Era come se quegli otto lunghi, lunghissimi anni avessero dato vita a qualcosa di enorme, a qualcosa di importante che io stessa non avrei mai potuto immaginare. Forse a causa di ciò avvertivo sempre una strana stanchezza... i muscoli delle spalle erano sempre in tensione e pensavo in continuazione alle stesse cose, tanto da temere di essermi bruciata il cervello.

Capita spesso che i figli di genitori che vanno molto d'accordo, crescano senza sviluppare alcun senso critico nei confronti del mondo che li circonda. E così era stato nel mio caso. Ero diventata grande pensando che tra moglie e marito non potesse che esistere armonia, e che per una coppia la cosa più piacevole e bella in assoluto fosse stare insieme. Se così non fosse stato, ero convinta che il matrimonio non avesse più ragione d'esistere e che il divorzio fosse solo una questione di tempo. Una regola di certo applicabile nel caso dei miei genitori, ma che purtroppo non era sempre vera. Dalla mia disavventura avevo imparato che a questo mondo, invece, esistono numerose forme di unione e una vastissima gamma di compromessi.

C'era voluto così tanto tempo perché me ne accorgessi, da darmi della cretina da sola. A ben pensarci, però, più che una coppia legata da un amore indissolubile, mia madre e mio padre erano due persone molto affini, idealisti al punto da voler mettere la felicità al primo posto. Riuscivano a non prendere troppo seriamente le cose della vita, e così facendo se la spassavano in qualsiasi circostanza. Al contrario io, in quella fase dell'adolescenza in cui il desiderio d'amore arde quanto mai, mi ero messa con un uomo sposato e vivevo nell'attesa che si facesse vivo. Non mi restava che riempire il vuoto delle mie giornate rimuginando, e avevo cominciato a sospettare di tutto e di tutti proprio perché non avevo di meglio da fare. Ero davvero stanca di non potere più fare affidamento su niente e nessuno.

L'appartamento di Tokyo l'avevo tenuto, ma ancora non riuscivo a decidermi se fosse il caso di tornarci a vivere oppure no.
Con chi avrei potuto sostenere che la mia intera adolescenza non era stata altro che una forma di nevrosi? Tutto sommato avevo vissuto per anni aspettandolo, senza mai tradirlo una volta, accontentandomi di fare lavoretti saltuari così da potermi gestire gli orari con la massima libertà. Ero anche arrivata a imparare a maneggiare il cellulare e il computer per essere più facilmente rintracciabile. In quel frangente di vuoto improvviso, non aveva senso fare paragoni inutili o chiedersi chi dovesse uscirne vincitore e chi vinto. Io ero semplicemente pazza di lui e senza rendermene conto ormai mi aggrappavo con tutte le forze ai miei sentimenti e alla mia condizione. Era stato tutto molto divertente, niente di più, proprio come quando in primavera soffia il vento tiepido e con la punta del naso ti godi i suoi profumi dolci, oppure come quando in inverno ti senti felice a stare seduta davanti alla stufa con le ginocchia bollenti. Io mi ero immersa in quella vita di coppia, in quella grande storia d'amore senza futuro in cui giorno dopo giorno si accumulavano leggeri ricordi quotidiani privi del peso della realtà. Anche se non ne ero consapevole del tutto, non c'era dubbio che dipendessi completamente da quella vita.

Una vita che, a ripensarci adesso, assomigliava a quella dei ricoverati negli ospizi, tutto il giorno davanti alla televisione. Intontiti dal tranquillo ripetersi degli eventi, riescono a chiedersi soltanto quale programma desiderano vedere, mentre fuori dalle loro stanze tutto avviene in modo dinamico. A dire la verità, sapevo che stavo perdendo, istante dopo istante, qualcosa di molto importante. Per esempio: il tempo per me stessa e la lucidità di giudizio.

Smarrita all'interno di quella vita passata, capii che così facendo non ce l'avrei più fatta a uscirne. Era come se mi fossi incantata a osservare un filo reciso che penzola nel vuoto (...). Se va avanti così, si mette male... Il momento in cui arrivai a questa conclusione confusa, decisi di tornare al mio paese. Laggiù dove viveva gente con cui non andavo particolarmente d'accordo e dove non cambiava quasi mai niente (...).

Pensai che la gentilezza disinteressata delle persone, le loro parole spassionate, fossero come un abito di piume. Avvolta da quel tepore, finalmente libera dal peso che mi aveva oppresso fino a quel momento, la mia anima stava fluttuando nell'aria con grande gioia (...).

Mi sentivo rilassata mentre, con il corpo ben caldo, osservavo le montagne e le auto che passavano sulla statale. L'insieme delle emozioni di quel momento non lo si sarebbe potuto descrivere soltanto con il termine "felicità". La mia consapevolezza di essere viva, ormai, aveva raggiunto un'estensione infinita. Così facendo, mi dimenticavo sempre più. Delle sofferenze passate, della sensazione che la vista mi si fosse annebbiata per la tristezza in cui era immerso il mio appartamento, delle lacrime che avevo praticamente vomitato.

Sentivo che il mio corpo se ne liberava giorno dopo giorno. Certo, mi capitava di avere ancora qualche crisi improvvisa, i ricordi mi ripiombavano addosso e le gambe non mi reggevano più, ma la frequenza con cui ciò accadeva diminuiva a vista d'occhio. Dalla mia memoria si stavano cancellando tutte le sensazioni fisiche della vita di Tokyo. Avevo anche cambiato faccia. Ero più rilassata, non avevo più lo sguardo perso nel vuoto, adesso era attento e mi si erano addirittura addolcite le linee del viso. Avevo realizzato quanto impressionante fosse la forza del tempo. Era come se la corrente del fiume mi avesse portata lontano, se anche fossi voluta tornare indietro, ormai non sarei più riuscita nemmeno ad afferrare la coda di quelle sensazioni (...).

Io avevo lasciato la mia giovinezza a Tokyo, adesso però mi sentivo stranamente serena. Una sensazione nuova per me, come se fossi tornata bambina. Le uniche cose a cui avevo pensato durante gli anni definiti come "adolescenza" erano stati il cibo e il sesso. Bastava che guardassi la foto dell'uomo con cui stavo, perché venissi riportata in un mondo fantastico. Che altro non era che la realtà vista attraverso la finestra di un estraneo.

"Ancora un piccolo sforzo, dai! " fece lei.

"Ma si può sapere cosa vuoi da me?"

"Non l'hai ancora capito? Voglio che torni a vivere qui! " rispose Rumi con il sorriso sulle labbra.

In quell'istante mi sentii avvolgere ancora una volta dal calore di quelle parole.

Non ho bisogno di te, non mi servi più... il mio animo da orfanella, abbandonata sia dall'uomo amato che dall'unico legame che avevo con Tokyo, era rimasto traumatizzato da quelle frasi che pure non mi erano mai state rivolte apertamente. Da quando ero tornata al paese, invece, aveva cominciato a sentirsi protetto dall'affetto di quelle esortazioni (...).

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